Per fare un fiore: il mio viaggio in Madagascar

Sono Luca, ad ottobre ho trascorso dieci giorni in Madagascar, per conoscere da vicino le opere della missione di padre Stefano Scaringella. Dopo l’atterraggio all’aeroporto di Antananarivo, capitale del paese, lungo il viaggio in macchina verso la casa che mi ha ospitato, ho iniziato a conoscere la povertà e la lenta laboriosità degli abitanti: chi fabbrica mattoni ai bordi della strada asfaltata (una delle poche), chi lava i vestiti in pozze d’acqua o in piccoli fiumi, chi vende i frutti del raccolto su bancarelle fai da te… una piccola economia stradale, che attende che le macchine si fermino per comprare qualcosa. Dopo essermi riposato, ho iniziato a camminare tra gli edifici della tenuta, dove sono ospitati circa 50 ragazzi e ragazze che studiano al collegio e al liceo. Lungo il bordo del terrazzamento, costruito per far spazio alle case, corrono delle aiuole e, passeggiando per osservare il panorama, a un tratto mi sono soffermato su un fiore. È la prima immagine che ricordo aver catturato la mia attenzione: un piccolo fiore rosa, mosso dal vento caldo, abbracciato dalla terra. Non so bene il motivo: forse, scosso dal ritrovarmi in un mondo tanto diverso, quel fiore mi rassicurava, perché la sua bellezza era il segno di qualcuno che ogni giorno se ne prendeva cura. Così mi sono detto che, probabilmente, qualcuno avrebbe pensato anche a me, che non conoscevo la lingua del luogo e mi sentivo spaesato. Oggi so che quell’immagine racchiude tutto quello che ho visto nei dieci giorni trascorsi sull’isola.

L’impegno tenace che nutre e fa crescere

Da quasi cinque anni sono state costruite le case nella regione della capitale, dove ho trascorso la prima metà del mio viaggio. Alcuni dei bambini accolti da padre Stefano, ormai cresciuti, sono stati mandati dal nord per proseguire gli studi. E molti di loro si apprestano a scegliere il curriculum universitario; in capitale studiano l’inglese e stanno per iniziare corsi di lingua cinese, un idioma sempre più importante a fronte degli ingenti investimenti esteri. La giornata è scandita dal lavoro comune per prendersi cura della tenuta: la mattina presto si lavano i pavimenti e si prepara la colazione, poi si studia, qualcuno prepara il pranzo, il pomeriggio si studia di nuovo e si riordinano le camere. La sera, dopo aver mangiato insieme e guardato una puntata di qualche telenovelas (le ragazze le adorano) si va a letto presto, dopo aver chiacchierato o letto nella propria stanza. Durante il mio soggiorno abbiamo festeggiato il diciottesimo di Georgina e il clima di festa ha contagiato anche me: i balli sono proseguiti per quasi due ore, con una breve pausa per il taglio della torta e le foto di rito.

La seconda tappa del mio viaggio è stata Ambanja, che ho raggiunto insieme ad alcuni amici e collaboratori della casa di accoglienza con un viaggio di 24 ore in pulmino, attraversando tanti piccoli paesi e la campagna: di giorno sotto il sole cocente e, più tardi, circondati da una stellata indimenticabile. La nostra destinazione, nel nord del paese, rappresenta il luogo dove tanti anni fa iniziò la missione di padre Stefano; qualche anno più tardi, quando il primo bambino fu abbandonato all’ospedale Saint Damien (costruito dal frate cappuccino), il piccolo fu curato e poi portato da un giudice, perché fosse assegnato a una casa per trovatelli. Ma visto che di strutture non ne esistevano, l’unica soluzione fu di fondarne una. Nacque così la maison des enfants “Alessia e i suoi angeli”, che oggi si prende cura di più di 100 bambini – soprattutto bambine, che nella cultura locale sono considerate di minor valore. L’importanza che padre Stefano ha sempre dato all’educazione ha fatto sì che, una volta terminati i primi cicli di studio, si costruissero in capitale le case per proseguire il percorso d’istruzione.

La terra fertile della missione

Padre Stefano ha ricevuto la propria vocazione da piccolo, quando durante un cineforum in parrocchia fu proiettato un documentario su alcune missioni religiose in Africa. Ancora bambino, aveva deciso di diventare medico per curare gli ammalati nei paesi del continente nero. Entrato in seminario a 13 anni, intraprese il percorso di formazione presso l’ordine dei Cappuccini, per poi dedicarsi agli studi di medicina all’Università Cattolica di Roma. Quindi fu mandato in Africa e, nel 1983, in Madagascar. Come ripete spesso, si è sempre sentito accompagnato dalla divina provvidenza, che non l’ha mai abbandonato, rendendo possibile che la sua vita diventasse un terreno fertile per gli altri. E ammette che non avrebbe mai immaginato di vivere tanti anni in un mondo così lontano dal suo paese.

In questi decenni sono nate molte opere, anche grazie ai rapporti internazionali coltivati nel tempo. Durante la mia permanenza, per esempio, ero in compagnia di una classe del collegio Champittet di Nyon che, tramite la propria fondazione, ha costruito una scuola nel paese di Andrafiabe, oltre a contribuire alle spese della casa dei bambini. Ho conosciuto anche due simpatiche rappresentanti di un’altra fondazione svizzera di Losanna, intente a monitorare la costruzione di un pozzo. Sono tante le realtà no profit e imprenditoriali che dall’Italia alla Germania continuano a donare fondi e aiuti a padre Stefano, una volta scoperto il valore del suo lavoro. E di iniziative non ne mancano mai perché, come mi ha raccontato Felicita (dottoressa responsabile della casa dei ragazzi nella capitale), se il motto dei Malgasci è “mora-mora” (“lentamente”), padre Stefano per loro corre sempre veloce. Così, da alcuni anni sono in corso progetti agricoli, che concedono piccoli appezzamenti di terra alla popolazione locale; e poi corsi per formare personale infermieristico, lezioni di avviamento alla manifattura tessile e sessioni pomeridiane per i ragazzi che devono ripassare una materia durante le vacanze. Un progetto ambizioso sul nascere è il tentativo di consorziare piccoli produttori di cacao, oggi depredati del raccolto in cambio di pochi spiccioli, per aumentarne il potere contrattuale. La speranza è di poter riutilizzare parte dei profitti per investimenti sociali a favore della popolazione.

Il vento caldo che aiuta a camminare

I giorni trascorsi mi hanno anche permesso di addentrarmi nella cultura locale, mai conosciuta prima, grazie soprattutto alla pazienza di Felicita e di padre Stefano, che mi hanno raccontato le tradizioni, i costumi e la vita quotidiana dei Malgasci. È una cultura allegra e vivace, una vita che si muove con ritmi lenti senza però fermarsi mai. Forse anche per questo c’è sempre gente in giro, traffico, motorini e piccoli “taxi” trainati da biciclette che si accavallano e si sfiorano lungo le strade. Non si guida quasi mai veloce, perché le lunghe code e le strade piene di buche non lo permettono. Però ci si muove sempre, come un grande fiume che piano piano scorre e tiene insieme gli abitanti. Anche questo sorprende, arrivando da Occidente: le persone stanno insieme, dalle ore del lavoro fino ai canti e ai balli della sera. E i ragazzi di padre Stefano sorprendono ancora di più, soprattutto per la maturità che dimostrano pur avendo pochi anni: la regola è semplice, chi è più grande si prende cura dei piccoli, così ragazze di 14 anni dimostrano la serietà che da noi si addice a quelle di 20. È un fenomeno sorprendente, che non passa da un libretto di istruzioni, ma fiorisce dalla dedizione ricevuta, dall’affetto di chi ti ha preceduto, per poi diventare attenzione amorosa verso chi ti sta accanto. Basta vedere la gioia che esplode ad Ambanja quando arriva un nuovo piccolo ospite, quasi che Dio in persona avesse scelto di trasferirsi lì. E forse è questo ciò che padre Stefano e Felicita vedono, quando guardano per la prima volta un trovatello entrare nella “maison”.

Un fiore sbocciato nella pazienza del lavoro

È semplice cogliere il frutto visibile della missione di padre Stefano: balza agli occhi dei tanti che arrivano da tutto il mondo, per contribuire ai progetti di sviluppo. Nel tempo, con la pazienza del contadino e la tenacia dell’operaio, centinaia di bambini buttati per strada, nei boschi e davanti al suo ospedale, hanno trovato amore, cure, cibo ed educazione. Ora molti studiano alle superiori e tanti andranno all’università. Un giorno, in Madagascar, qualcuno chiederà ad agricoltori, commercianti, dirigenti di banca, imprenditori e politici, chi sono e da dove vengono. E scoprirà che chi era stato scartato è stato voluto bene, è diventato grande e magari ha assunto un ruolo di responsabilità verso il proprio paese. Io, dopo il mio viaggio, so anche un’altra cosa: che, per dedizione di un uomo e grazia di Dio, sono stato accolto da tanti di loro come se fossi parte della famiglia. Lavorarci è un compito difficile, che richiede grande coraggio e un impegno fedele: lo si intuisce facilmente quando, dopo una giornata intera passata in spiaggia a giocare coi bambini, dopo aver cenato insieme, ti guardi intorno e, mentre decine di loro ancora giocano e si rincorrono, inizi a chiederti come sia possibile metterli tutti a dormire.

Torno a casa felice, perché in Madagascar ho trovato un tesoro. Un dono che mi segue sul volo per Addis Abeba, poi a Malpensa, fino a entrare in casa mia e contagiare amici e parenti. Ed ecco che il fiore mi ritorna in mente: l’immagine ora è più chiara. Un piccolo fiore rosa, mosso dal vento caldo, abbracciato dalla terra.

Luca Maggi